Teatro del Canovaccio
Via Gulli 12 - Catania
Tel: 391 48 88 921
“Ancora un Poe” è il titolo che ho scelto per il terzo capitolo dedicato ai racconti del terrore di Edgar Allan Poe, il poeta che più conosco e più amo. Non è un caso che grandi come Oscar Wilde o Robert Louis Stevenson e tanti altri si sono ispirati proprio a lui per i loro più celebri romanzi. Impossibile non lasciarsi coinvolgere dalla bellezza della sua poesia, dalla sconvolgente attualità delle sue tematiche, dall’unicità del suo stile, dall’irresistibile fascino che tutto il suo mondo esercita. Impossibile, leggendolo, non immergersi, assieme a lui, nei meandri sotterranei dell’inconscio, negli abissi della psiche, nei tortuosi gineprai di questa strana condizione che è la vita. Impossibile non fermarsi a riflettere sulla natura delle nostre paure, delle nostre ossessioni che storpiano la percezione della realtà fino a diventare vere, reali, tangibili e tuttavia lontane dai confini della logica e della prevedibilità. Impossibile non apprezzare la capacità di questo meraviglioso ma fin troppo sottovalutato scrittore di farci atterrare in quello spazio immaginario, ma vero, dove il sogno si fonde e si confonde straordinariamente con la veglia, il giorno con le tenebre, la gioia col dolore, l’inconscio con il reale, le aspirazioni con gli incubi, la morte con l’amore. Ed è in questo spazio dai contorni indefiniti e indefinibili, nelle profondità infinite del nostro essere, che riaffiora, prorompente, vitale, impetuosa tutta la concretezza e la forza dell’esistenza: nello sguardo atterrito da una visione mostruosa, nella furia selvaggia della natura, nelle acque turbolente e indomabili del Maelström, nel ritrovare finalmente se stessi quando ormai… è troppo tardi.
Eliana Esposito
RICCARDO III - dal 23 al 26 novembre
di WILLIAM SHAKESPEARE
Adattamento e Regia di Nicola Alberto Orofino
Interpreti: Roberta Amato, Daniele Bruno, Raffaella Esposito, Carmelo Incardona, Lucia Portale, Vincenzo Ricca e con Alessandra Pandolfini
Assistente alla regia Gabriella Caltabiano, Luci Simone Raimondo
Scene Vincenzo La Mendola, Costumi Rosy Bellomia, sarta Shirley Campisi
Raccontare le ragioni di una messa in scena shakeaspeariana, è sempre molto difficile, perché i temi dibattuti sono innumerevoli e intrecciatissimi. Dopo Giulio Cesare e Misura per Misura decido di affrontare Riccardo III, in continuità ideale con le altre due opere, non già perché il tema della sete di potere accomuna i tre testi, ma per la straordinaria (ma diversissima nelle tre opere) capacità di raccontare l’umanità che trasuda odore di bestia. Nessuno sconto, nessuna moderazione. Non c’ è controllo, nessuna regola di coscienza, non ci sono freni creativi. Shakespeare è estremo nel riferirci pulsioni, passioni, orrori, scandali. Nessuna intermediazione borghese. Manca la misura. Ed è proprio questa assenza di prudenza che fa diventare un racconto, manifestazione poetica per eccellenza. Perché dire che Shakespeare è un drammaturgo è non solo riduttivo, ma profondamente sbagliato. E’ poeta, è inventore dell’umanità, è rilevatore degli istinti più bassi e più alti; queste sono definizioni che mi sembrano più appropriate.
Raccontare Riccardo III oggi, significa parlare non tanto del potere degli uomini di Stato, ma dei desideri più nascosti degli uomini cosiddetti semplici. Riccardo III acquista la capacità di tradurre in azione concreta pensieri luridi che attraversano tutto il genere umano. Per questo si fa icona ai nostri occhi, per questo ha il sapore eccitante e macabro di un prete che celebra una messa nera. Uccide, perché, al contrario della maggior parte di noi, la sua arguzia gli ha dato la possibilità concreta di farlo. Riccardo III vive al massimo, e raggiunto il massimo che si poteva chiedere alla vita, cade in una disperazione profonda e senza pace. E’ il destino di chi raggiunge le vette. La discesa è una punizione tremenda.
Torno al Canovaccio con Shakespeare per la terza volta, perché le mura di pietra lavica e le tavole di legno di quel teatro trasudano una magia che difficilmente ritrovo in altri spazi. E ci ritorno con un cast di giovanissimi attori desideroso di farmi contaminare dalle loro fantasie, dalle loro perversioni, dai loro desideri. Infine torno a Shakespeare, con l’emozione di uno scolaretto appassionato che implora il Maestro di rivelargli le alchimie più complesse del proprio mestiere.
Nicola Alberto Orofino
Siamo sicuri di essere noi i soli artefici della nostra vita? Siamo sicuri che tutte le nostre scelte, dalle più futili alle più importanti, quello che consumiamo,quello che mangiamo siano dettati veramente da un nostro effettivo bisogno? Siamo sicuri che tutte quelle che consideriamo conquiste siano effettivamente frutto della nostra evoluzione?
Non abbiamo risposte da dare, questo è uno studio in chiave umoristica su alcune tecniche di persuasione di massa attraverso i mezzi di comunicazione da sempre al servizio del potere. Uno studio sulle tecnologie di "ingegneria sociale" come The Hallin’s spheres, the Overton Window o le strategie della manipolazione smascherate da Noam Chomsky. Una riflessione su come il potere, attraverso i mezzi di comunicazione, sia in grado di manipolare, condizionare, modificare i nostri pensieri, farci accettare, con una sequenza ordinata di passaggi, qualsiasi cosa; anche un’idea inconcepibile ma utile al sistema e, talvolta, per pura coincidenza, chissà, anche alla società stessa. Ognuno, all'interno di questi “passaggi”, contribuisce senza saperlo alla causa e agevola l'avanzamento alla fase successiva, i giornalisti, per esempio, sono in cerca di scoop, i conduttori TV vogliono ascolti, gli artisti vogliono popolarità, i politici vogliono voti e tutti noi siamo in cerca di un "like" per affermare il nostro ego; ed ecco che la macchina della propaganda si autoalimenta, non ha più bisogno di gas.
Il potere ci vuole consumatori avidi, inermi, acritici, ipnotizzati e comodi per attuare indisturbato i suoi piani e metterci inconsapevolmente al suo servizio come utili idioti.
Questo studio non si domanda perché, quando e a chi possano essere utili tali accettazioni, descrive semplicemente come funziona “la fabbrica del consenso”. L’argomento scelto per mettere a nudo queste tecniche di manipolazione è volutamente sgradevole. È una metafora ovviamente, ma anche una provocazione perché pochi sembrano ormai gli argomenti capaci di suscitare indignazione.
Pasolini che come tutti i geni riusciva a vedere oltre la soglia del suo tempo, aveva profetizzato e denunciato i pericoli del “nuovo potere”, della società dei consumi e dell'omologazione, del totalitarismo massmediatico che dietro la garanzia di una finta libertà è in grado “di manipolare i corpi e trasformare le coscienze”. “La “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere - diceva - è la peggiore delle repressioni della storia umana”. Certo è scoraggiante scoprire che probabilmente nessuna rivoluzione sia forse partita veramente dal basso, ma per cambiare è necessario sapere e avere l'umiltà di riconoscere che tutti siamo manipolabili, perché come diceva Goethe: “Nessuno è più schiavo di colui che crede di essere libero”, perché non vedrà mai le sue catene.
Eliana Esposito
Disegni e parole che sono creazioni estemporanee suggerite direttamente dal Cosmo tramite un fiducioso abbandono tra le braccia della poesia. Attraverso l’umorismo, Alvalenti, il disegnatore graficomico noto al pubblico di Zelig, si illude di intuire gli spazi che ci sono tra noi e l’Universo, di percepire visioni nuove e imprevedibili con l’assoluta presunzione di riuscire a soddisfare quel bisogno ancestrale di immaginare, sognare, sorridere a mondi nuovi, ma possibili… anche se improbabili. Il tutto con lo scopo di trovare la risposta all’atavica ed eterna domanda che tutti ci poniamo spontaneamente ogni volta che, per caso, ci ritroviamo a guardare l’infinito cielo stellato: cos’altro noi siamo oltre a quello che già sappiamo di essere?
Esiste un teatro nel teatro ed in qualche modo questo nuovo spettacolo prova a raccontarlo. Prova, cioè, a raccontare la storia di due artisti alla ricerca di una collocazione solida, convincente, inedita, che poi dovrebbe rappresentare l’essenza primordiale di ogni ricerca artistica e del teatro stesso. Forse sarebbe più giusto affermare, per onestà intellettuale, che questo non è esattamente uno spettacolo, ovvero una messa in scena più o meno borghese in cui fanno passarella dei personaggi più o meno scontati (un buono, un cattivo, un padre, un figlio o due innamorati, etc.). No, direi proprio di no. Ma per la stessa onestà intellettuale dovrei anche affermare che, se è vero che non è uno spettacolo tipicamente borghese, di contro, non so esattamente cosa sia, né saprei come definirlo con maggiore precisione. So solo che il posto dove ho ritenuto di renderlo pubblico è il teatro, che scrivo solo quando penso di avere qualcosa da dire (viceversa taccio e con piacere), che non mi è mai importato di etichettare qualcosa ad ogni costo e che quando ho scritto questo testo ero in un momento di interessante confusione. Penso che la confusione sia un balsamo, talvolta. Gran parte dei pensieri di quel tempo sono sulla scena e non mi appartengono più. O meglio, non appartengono più soltanto a me. Sono e saranno già di chiunque desideri portarne qualcuno con se per farne ciò che gli pare, financo riflettere. In ognuno di essi è racchiusa la sintesi di un percorso: artistico, personale, privato, intimo, intellettuale (forse). Perché il teatro si racconta e si condivide. Si urla, talvolta. Si prova e si ricerca. Tutto il resto ha davvero poca importanza.
Nicola Costa
Nicola Costa
CORDIALEMENTE INVITATI A INCONTRARE LA MORTE dal 15 al 18 marzo
Amante della buona cucina, appassionato di orchidee nere, narciso, maledettamente pigro, edonista per dedizione, obeso per passione, imponente nella sua mole, di un’imponenza sorniona e superiore di chi ha un altro concetto del tempo, dello spazio e dei valori, con la sua elastica spalla atletica, quell’Archie Goodwin, che più che di una spalla si può benissimo definire il braccio a cui Nero Wolfe lascia ben volentieri tutte le azioni e tutti i movimenti da vero detective; l’uomo che gira e rigira i fatti e i testimoni e che poi conduce tutti i soggetti coinvolti, presso lo studio del “ capo “ per l’immancabile interrogatorio finale che poi svelerà ogni mistero circa il nome dell’assassino.
Ci accingiamo a compiere un‘irruzione in un campo, quello del teatro tratto da un romanzo giallo, quello di Rex Stout in questo caso, dal titolo “ Cordialmente invitati ad incontrare la morte “ che nella sua originalità narrativa, ben si è prestato ad una fedele riduzione teatrale, mantenendo quasi integralmente sia i personaggi che i dialoghi della sua edizione letteraria. Un genere questo del “ giallo “ letterario ridotto per il teatro, che pur nella sua originalità, ha avuto negli ultimi anni molti epigoni, anche se la costruzione tecnica della nostra proposta cerca, come sempre, di attingere alla lezione del teatro contemporaneo, laddove i ritmi e le scene d’insieme si susseguono ai momenti di pura dissertazione dei dialoghi e degli interrogatori che porteranno, inevitabilmente, alla scoperta dell’assassino.
In breve la trama:
Una matura signora di nome Bess Huddleston, organizzatrice di ricevimenti per ricchi, viene ferita da una scheggia di vetro e muore di lì a poco di tetano. Disgrazia o delitto? Sarà compito di Nero Wolfe col suo fedele Archie Goodwin, tra una mangiata e l’altra e tra un intervallo e l’altro dedicato alle amatissime orchidee nere, di scoprire, tra le maglie dell’intricatissima trama, il movente e l’autore dell’efferato delitto. Al pubblico non rimarrà che assistere con attenzione all’evolversi degli eventi attraversati dalla personalità originale e da vero dandy del grande Wolfe che, come al solito, risolverà alla fine ogni enigma.
Gianni Scuto
Torna sulle tavole del Canovaccio Improvvisazione a delinquere. Chi li conosce sa già che l’improvvisazione teatrale è una tecnica di teatro dove gli attori non hanno un copione predefinito ma inventano il testo direttamente sulla scena improvvisando “Estemporaneamente”. Questa tecnica che affonda le sue radici fin dai tempi di Aristofane nel teatro popolare, che è portata agli estremi da Plauto e dall’istrione, che diventa fondamentale nella Commedia dell’Arte con le recite a soggetto, riemerge in terra canadese con i famosissimi match di improvvisazione che approdarono alla fine degli anni ‘90 anche nella televisione italiana. Fondamentali alla riuscita dello spettacolo: il lavoro di gruppo, l’ascolto tra compagni, la fantasia, la lucidità, la rapidità nel prendere decisioni, nel percorrere una strada invece di un’altra, la capacità di adattarsi e accettare le proposte degli altri, il coraggio di prendersi delle responsabilità, di fare delle scelte, di correre dei rischi perché gli attori non sanno cosa faranno i loro compagni in scena. Ma è fondamentale anche l’interazione col pubblico e la sua preziosa collaborazione senza la quale l’improvvisazione non sarebbe possibile. Esaltante come guardare salti mortali senza la rete di sicurezza sotto. Esilarante come quando si assiste al capitombolo della modella col tacco. Chi li conosce sa che deve aspettarsi l’inaspettabile!