Teatro del Canovaccio
Via Gulli 12 - Catania
Tel: 391 48 88 921
NOTE DI REGIA - DI VITA SI MUORE
Di vita si muore recita un caposaldo della saggistica shakespeariana. Di vita si muore, di vita si può morire, o meglio, di vita si rischia di morire. Dal momento in cui nasciamo siamo esposti alla vita (dono e/o condanna) e a tutte le sue esperienze (soddisfazioni e/o pericoli). Lo sa bene Cappuccetto Rosso, la protagonista della fiaba delle fiabe. Il viaggio nel bosco è un'esperienza esaltante. E affrontare la pancia del lupo è un passaggio obbligato. Quando esci fuori da quella pancia è bellissimo. L'esperienza per quanto straziante è fautrice di rinascita (crescita). Prosegue il viaggio, sempre esaltante, almeno fino alla prossima pancia del lupo, inevitabile. È così di pancia in pancia, di esperienza in esperienza, la vita in questo mondo (il viaggio nel bosco) trascorre...
Quanto coraggio ci vuole!
Di quanta forza noi, cappuccette che popoliamo i sentieri della foresta, siamo provviste. Perché in una vita le pance del lupo possono essere tantissime, alcune terribilmente insopportabili. Può accadere (e capita prima o poi) di gettare la spugna anche solo per un attimo, di allontanarsi dal bosco, di fare di tutto per evitare le pance, perché il dolore causato può essere insostenibile.
Fare di tutto per evitare le pance...
Anche barricarsi.
Evitare di uscire,
rifiutare l'esperienza,
smettere di crescere...
Chiudersi.
Chiuse.
Io ho sempre sognato. Anche da ragazzina sognavo.
E non avevo paura di niente. Ti dicono che i pericoli aiutano a crescere.
Ma poi io ho capito... quando cresci, finisce sempre che devi crescere ancora un po',
e poi un altro po', e ancora un po'... E sempre sempre...
Pericoli su pericoli... Dopo non è bello e sereno.
Mia figlia tiene tutto chiuso.
Così i pericoli stanno lontani...
E io posso vivere come voglio.
Ogni giorno una vita nuova.
Sempre bella.
Senza lupi.
Senza crescere.
Come sarebbe bello se...
Nel dicembre 2015, nell'ambito della residenza promossa dal Festival Internazionale di Regia teatrale Fantasio e organizzata dal gruppo EstroTeatro di Trento, è stato chiesto a sei gruppi teatrali guidati da sei registi diversi di costruire uno spettacolo partendo da una riflessione attorno alla fiaba di Cappuccetto Rosso.
Chiuse è uno dei sei progetti finalisti nati in quella residenza.
C'era una volta... Una nonna, una madre e una figlia chiuse in un recinto (casa, stanza...). Fuori c'è un bosco, già esplorato in un tempo passato dalla nonna e poi dalla madre, Cappuccette cresciute a suon di pance di mostruosi lupi. La madre vuole (deve, è istinto) proteggere la figlia, affinché non debba subire le stesse terrificanti esperienze. Per questo l'ha serrata dentro, chiusa.
La figlia, Cappuccetto di oggi, non ancora svezzata da alcun lupo, ha sete del bosco. In lei si agita un forte istinto di evasione.
"Lasciami uscire anche solo una volta", supplica alla madre carceriera.
Uscire, anche se fuori non c'è niente, perché ad un certo punto diventa indispensabile sapere com'è fatto il niente.
Anche la nonna, come la madre, è vittima di una vita che si può anche morire. E per non morire ha deciso di chiudersi in un mondo tutto suo, lontano dalla realtà del recinto.
"Non lo ricordo, questo proprio non lo ricordo..." ripete continuamente.
Creatrice di fantasie (divertenti per lo sguardo esterno, strazianti per quello interno), cancella (o fa finta di farlo) i ricordi di una vita. Devono essere rimossi per non morire. Perché lei, a differenza delle altre due, lo sa fin troppo bene che di vita si può anche morire...
La nonna ha un unico ricordo...
"C'era una volta una ragazzina dolce e buona; tutti quelli che la vedevano l'amavano, ma specialmente sua nonna, che non sapeva più cosa regalarle"....
Quella storia... Rimane nella testa.
Non la dimentico.
È l'unica cosa che ricordo.
Cosa c'era prima?
Cosa dopo?...
Boh! Non lo so.
"Quando lei entrò nel bosco"....
Il buio qui dentro mi brucia.
Ma il buio delle strade del bosco...
Nicola Alberto Orofino
INSOLITA SOLIDIFICAZIONE - dall'8 al 11 dicembre
ovvero
Come scomparvero gli esseri umani, in un anno imprecisato del terzo millennio, senza lo scoppio della terza, quarta, quinta, ecc…guerra mondiale.
di Franco La Magna
Dalla letteratura al cinema, cupamente apocalittiche o clamorosamente catastrofiche, le ipotesi di fine del mondo tornano ciclicamente a riemergere sui confusi cammini dell’umanità, gettando sull’ansioso procedere dell’uomo un “alt”, uno “stop”, quasi una maledizione divina per aver troppo osato e troppo offeso.
In questa commedia assurdo-grottesca (registro stilistico ed estetico prediletto dal grande Eugène Ionesco, a cui apertamente è dedicata) nessuna apocalisse e nessun catastrofismo accompagnano la fine del mondo, ma solo una semplice “consunzione interna”, come se - inconsapevoli portatori di energie limitate - gli esseri umani, al pari di burattini elettronici, esaurite invisibili batterie che ne sovrintendono il funzionamento, si ritrovassero scarichi e condannati ad una immobilità eterna, aggravata da un irreversibile processo di “solidificazione”. E nella mortifera rigidità che colpisce uomini e donne forse risiede la “novità” della commedia: gli esseri umani si “solidificano”, probabilmente prima per eccesso e poi per assenza di comunicazione, ma appunto senza catastrofi e all’improvviso, ove si escluda qualche vago, lontano, segno premonitore peraltro difficilmente decodificabile da pochi “eletti”. Una sorta di guerra chimica mai dichiarata (ipotesi tutt’altro che fantascientifica) colpisce il piccolo spaccato umano di Insolita solidificazione (mentre lo stesso accade fuori campo), lasciando intatte le grandi opere dell’ingegno, i palazzi, le strade, l’ormai inutile strabocchevole tecnologia, ultimo rimpianto del “solidificando” protagonista. Metafora grottesca sulla impossibilità di ristabilire una comunicazione non manipolata, pur nell’inarrestabile flusso di comunicazione divenuto ormai solo incomprensibile “rumore di fondo”.
E in questa tragicomica scomparsa del genere umano fanno da sfondo alcuni totem e feticci del mondo contemporaneo: dall’invadenza mediatica (con la televisione che pretende di registrare la diretta della fine del mondo), all’ossessione sessuale (anche in forme meno convenzionali), all’estremo bisogno dell’uomo di razionalizzare, destinato questa volta a fallire miseramente, ultima chance che il protagonista tenta inutilmente di spendere senza artifici verbali, ridotto ormai al soliloquio prima di sprofondare nel silenzio.
Gustave, un imberbe collegiale, che freme di malinconie e desideri adolescenziali, conosce per la prima volta l'amore nei sapienti abbracci di Marie, una giovane prostituta dal cuore vergine e assetato di sincerità. E' un incontro carico di tensione e di speranza per entrambi, ma dopo un secondo incontro, ancor più carico di voluttà e sentimento, i due non si vedranno mai più.
Un'iniziazione quindi, quasi rituale e sferzante di una carica di gesti e di drammaturgia che, prendendo le mosse dalla delicata opera giovanile ed autobiografica di Gustave Flaubert, di cui lo stesso autore, scrivendo ad un amico fa cenno dicendo: “ Se hai ascoltato bene Novembre, hai certo indovinato mille cose indicibili che spiegano forse quello che sono. Ma quell'età è passata e quest'opera segna la chiusura della mia giovinezza “.
I due attori protagonisti si muovono quindi dentro un angolo sprezzante di luci e di ombre, attraversate da profondi sentimenti cangianti e nello stesso tempo legati da una sensualità giovanile tesa e quasi rituale. Così la scena apparirà astratta, scaturita dal vuoto di una memoria non dimenticabile che rappresenta una giovinezza rivisitata dall'Autunno del passato e dalla voglia forse di approfondire quel “ Novembre “ attraverso il ricordo, quel “ ricordo “ rarefatto ed oscuro del primo amore.
“ Cerco di ubriacarmi con l'arte, come altri fanno con l'acqua vite...non si è felici, ma non si soffre più...” Così l'autore ci inonda di parole e di piccoli frammenti di esse, si appassiona quasi al non detto e spinge i due protagonisti al rigore quasi assoluto dei movimenti, dei ritmi e dei sussurri, in uno splendido gioco scenico di chiaroscuri e di lampi improvvisi che dalla modulazione della voce, ai suoni, ai respiri ora affannosi, ora delicati, all'improvviso e quasi imprevedibile controtempo delle cose che cambiano prospettiva e si risolvono in un lancio di sguardi o in un bacio appena accennato, si concretizzano in quelle forme di scrittura profonde e nello stesso tempo ancestrali che ci riportano alla fine in ricordi senza tempo e senza verità, come quello di una Sicilia lontana e nello stesso tempo tanto vicina in cui la donna prende le forme di una ragazza del popolo tra canestri e reti stesi, tra barche con vele latine, in un piccolo villaggio che potrebbe anche essere Acitrezza, tanto caro a Verga. Una ragazza dai piedi nudi, con al corpetto un cordone d'oro, somigliante alle donne delle colonie greche, con i suoi capelli neri divisi in due trecce che le scendono fino ai piedi; si alza, scuote il grembiule, cammina e il suo corpo è robusto e agile, come quello delle ninfe antiche. Così egli continua: “ Se fossi amato da una simile donna ! Una povera bimba ignorante che non sa nemmeno leggere, ma la cui voce sarebbe dolce, se mi dicesse, col suo forte accento siciliano: “Ti vogghiu beni! Arresta cca ppi sempri!” .
Questo è il “ nostro “ Novembre, un viaggio in quel passato lontano ed ancestrale di ricordi, di visioni, di frammenti, di immagini oniriche di quella giovinezza che, ormai, lo sappiamo bene, non tornerà mai più... “
Gianni Scuto
COPPIA APERTA QUASI SPALANCATA dal 25 al 28 maggio
Il testo di Dario Fo e Franca Rame Coppia aperta quasi spalancata, è uno spaccato sulla condizione etica, politica e sociale degli anni ’80. Con il ’68, il movimento femminista vantava, tra le altre cose, la conquista dell’assoluta libertà sessuale, ma la società, nonostante le dure lotte femministe, era ancora piuttosto maschilista. Dario Fo e Franca Rame, in questo atto unico, mettono in ridicolo con la loro satirica, questo affascinante e pericoloso concetto di “coppia aperta”. Una soluzione fantasiosa del marito per giustificare la sua infedeltà alla moglie. Ma la carica comica, e drammatica allo stesso tempo, risiede proprio nell’univocità della condizione in cui si vengono a trovare i due protagonisti della storia. La coppia aperta deve essere aperta da una parte sola (quella del maschio): se è aperta da entrambe le parti… poi ci sono le correnti d’aria». Tutta la commedia protende sulla figura di lei, Antonia, che prima da moglie innamorata, accetta i tradimenti del marito “adeguandosi” alla dimensione di coppia aperta, ma poi da donna ferita e disperata, si reinventa in femmina fatale. Come? Trovandosi anche lei un amante e gettando nella disperazione il marito che, a questo punto, non tollera più la condizione di “cornuto consenziente”, quella stessa condizione che aveva tanto desiderato per sé e per la moglie. Il merito del testo sta nella scrittura rapida, a tratti nervosa, e il cui ritmo è talmente serrato che lascia lo spettatore quasi senza fiato. Uno spaccato tragicomico della vita sentimentale e sessuale delle coppie di ieri e di oggi. Dramma familiare che fa morir dal ridere!
Valentina Ferrante, che veste i panni della moglie Antonia, con la sua scoppiettante interpretazione concede al personaggio uno spessore umano, ma allo stesso tempo tragi-comico, che poche attrici del nostro panorama teatrale riescono a dare. La sua interpretazione, in certi momenti volutamente sopra le righe, consente a Concetto Venti di disegnare quel personaggio del marito-maschio e cornuto, succube involontario della sua stessa “emancipazione” a senso unico, colorendolo con toni surreali di notevole spessore interpretativo.
Camillo Mascolino, che ha curato la regia, si è limitato a mettere in scena un testo che di per se ha infinite componenti grottesche, e al quale non è parso saggio aggiungere altro se non il divertimento di mettere in scena un testo che ha dentro tutto ciò che una commedia intelligente deve avere.
La scelta di rappresentare questo spettacolo risale a Giugno 2016, come omaggio a Franca Rame, cioè tre anni dopo la sua scomparsa, ma quattro mesi prima che Dario Fo decidesse di raggiungere la sua amata Franca nel Paradiso dei Giullari. La coincidenza dolorosa di questi eventi mi ha spinto a ricordare questi due illuminati artisti con un modesto “pensiero”
A Franca e Dario
Lo seppellirono di fianco a lei e dal cuore di lei nacque una rosa rossa e dal cuore di lui un rovo e crebbero così in alto che si intrecciarono in un nodo d’amore la rosa e il rovo.
Camillo Mascolino